Denominazioni d’origine o marchi collettivi: le sfide del vino in attesa della riforma in un convegno promosso ad Asti  

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Se le denominazioni abbiano ancora senso e se creino un vero valore aggiunto al vino è stato il tema attorno al quale si è dibattuto in occasione della tornata La riforma delle denominazioni d’origine: opportunità e criticità organizzata ad Asti dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino, in collaborazione con Piemonte Land, presso la sede dell’Uni Astiss.

Ad accendere il dibattito anche in chiave della riforma in corso di approvazione a Bruxelles e per la quale sono attesi i triloghi, sono stati gli interventi di Julian Alston, Università della California, Davis e Davide Gaeta, Università di Verona. Per Alston. «Il concetto delle Dop andava bene 100 anni fa. Adesso creano quello che è un concetto di economia asimmetrica». Per il professore statunitense, «le dop pongono restrizioni (vitigni, resa, tecnologia) che impattano con il mercato. Negli Usa si sono sviluppati i marchi collettivi che rappresentano la reputazione privata dei produttori». Alston quindi propone di «avere maggior qualità e maggior rendimento senza porre vincoli che incidono sui costi: se per fare un vino ho 100 euro di costi e abbasso la resa da 100 a 80, i costi salgono a 150». Quindi suggerisce il modello statunitense «senza restrizioni ma dove sono i produttori a dialogare per trovare la soluzione migliore per stare sul mercato».

Davide Gaeta ha evidenziato che se «le restrizioni aumentano i costi, dobbiamo vedere se gli effetti di questo aumento sono compensati dalla domanda». Gaeta si è anche domandato se «le restrizioni funzionino tutte» e se non «siano troppe». Ma in particolare si è chiesto se «i Consorzi funzionano». Domande alle quali rischia di non dare una risposta la riforma delle denominazioni d’origine in quanto «è stata veloce e la Ue ha fatto, come sempre lo slalom tra i problemi per appella alla sussidiarietà e lasciare i singoli Stati a risolversi i problemi. Anche stavolta dovremmo vedercela da noi». Gaeta ha posto l’accento anche sul fatto che «le denominazioni sono troppe» e che la riforma non deve essere un pacchetto unico dove c’è dentro «prosciutto e vino».

A parlare della riforma è stato Oreste Gerini, della direzione generale qualità agroalimentare del ministero dell’Agricoltura. «L’Italia deve difendere le proprie denominazioni contro le usurpazioni, non sono trasportabili altrove», ha detto. Quello che occorre «è aumentare la tutela con la conoscenza da parte del consumatore che deve essere consapevole di quanto compra. All’estero ho visto vendere parmigiano reggiano e dentro c’era un formaggio qualsiasi perché tanto non le conoscono, non sanno distinguere». Gerini ha evidenziato che «il nuovo schema vuole garantire le indicazioni geografiche attraverso procedure semplificate e aumentare la loro presenza sul territorio. Aumentare il patrimonio delle Ig per aumentare la certezza di chi acquista». Inoltre vuole anche «preservare i metodi di produzione naturale per non far essere quel prodotto replicabile». La riforma prevede anche «sia estesa ai nomi di dominio il nome della doc» e che ci siano maggiori «controlli sulle vendite online». Da trovare una soluzione invece, «sulla protezione delle Ig quando usate come ingredienti in quanto non c’è unità», come non c’è «unità di vedute tra ministero e produtto0ri sul lasciare il vino nel pacchetto globale della riforma». Nella tavola rotonda guidata da Giusi Mainardi, consigliere dell’Accademia, che ha fatto seguito al dibattito, Antonio Rallo, presidente Consorzio Sicilia Doc «la riforma delle Ig deve essere vista come una grandi opportunità per il sistema vino a denominazione», mentre Marco Alessandro Bani, direttore Consorzio Chianti Docg, ha posto l’accento sul fatto che «il disciplinare di una doc deve essere al passo con in tempi, ma il vino deve saper rispondere al mercato in tempi rapidi. Deve essere tagliato per il gusto di chi lo acquista. Occorrono disciplinari elastici per essere tempestivi». Claudio Biondi, presidente Consorzio Lambruschi, ha parlato del valore «della riforma che però deve ancora essere approvata e nella quale è presente la protezione online, un tema decisamente importante». Come «importante è il legame con turismo e agriturismo, una scommessa con cui confrontarsi». La proposta di riforma tiene conto adesso, ha detto Stefano Zanette, presidente Consorzio Prosecco Doc, «delle menzioni della tradizione che avrebbero potuto incrinare la tutela delle indicazioni geografiche come dimostra il caso eclatante del Prozek». Nella parte dedicata al focus Piemonte, moderata da Vincenzo Gerbi, vicepresidente dell’Accademia, Matteo Ascheri, presidente Consorzio Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani, ha voluto evidenziare come «il vero problema siano la burocrazia e tutte le sovrastrutture e non tanto le denominazioni d’origine e le loro restrizioni». Aspetto questo ripreso anche da Lorenzo Barbero, presidente Consorzio Asti Docg, che ha parlato di «tempi biblici per modificare un disciplinare che non consentono di stare al passo con il mercato». A chiudere la giornata le conclusioni dell’Assessore all’agricoltura della Regione Piemonte, Marco Protopapa.

L’Accademia Italiana della Vite e del Vino, presieduta dal Prof. Rosario Di Lorenzo, tra i propri membri annovera docenti universitari, il meglio dei ricercatori italiani in campo vitivinicolo, i titolari delle maggiori imprese del settore e gran parte di coloro che, sotto diversi aspetti, contribuiscono alla esaltazione nell’ambito sociale, artistico e letterario delle denominazioni e dei vini di alta qualità.

L’Accademia è collegata al Ministero dei Beni Culturali ed al Ministero dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e delle Foreste. L’attività si svolge in “tornate” a carattere itinerante con eventi organizzati insieme a visite conoscitive di specifiche realtà produttive. Questo ne consente la divulgazione e valorizzazione in Italia e all’estero. AIVV assegna il premio “Arturo Marescalchi” per celebrare la memoria del suo primo presidente onorario. Oltre al premio internazionale di vinicoltura “Giovanni Dalmasso” in memoria del suo presidente fondatore e il premio “Pier Giovanni Garoglio”, in ricordo dell’illustre studioso che è stato per diversi anni suo presidente.

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