Rapporto ristorazione Fipe 2019: segnali incoraggianti da donne e Under 35

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La crisi non è stata ancora del tutto superata, ma l’intero comparto si sta impegnando a fondo affinché le ultime, preoccupanti criticità possano essere archiviate una volta per tutte. Questo, in sintesi, è quanto si evince dal rapporto ristorazione Fipe 2019 sullo stato di salute del settore in Italia. Innanzitutto, il primo dato positivo è quello riguardante la crescita del numero di attività imprenditoriali avviate e censite lo scorso anno: si tratta di ben 336mila nuove aziende. Quest’ottimo risultato, però, viene mitigato da un aspetto poco rassicurante che dimostra come i problemi non siano stati ancora superati del tutto.

Purtroppo, a fronte del lancio di nuovi progetti legati al mondo della ristorazione, ce ne sono stati tanti altri che sono stati costretti ad alzare bandiera bianca in poco tempo. In altre parole, il cosiddetto tasso di mortalità imprenditoriale ha toccato quota 25% per quanto riguarda i locali che chiudono dopo appena un anno. Il dato è di un esercizio commerciale su due dopo una media di tre anni, mentre la percentuale schizza al 57% per le aziende che devono abbassare la serranda dopo cinque anni. Numeri troppo alti per poter dire finalmente che l’intero settore della ristorazione italiana è in piena salute.

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Ma si può tornare a tirare un sospiro di sollievo se ci si sofferma su un altro importante dato evidenziato dal rapporto ristorazione Fipe 2019. L’iniziativa femminile è in continuo aumento, e ad oggi siamo ad una proporzione di un’attività su tre guidata interamente da donne, per una media di 122mila negozi. Sono in crescita anche gli investimenti da parte degli stranieri (11,6%), così come i giovani Under 35 guidano circa 56mila aziende.

Rapporto ristorazione Fipe 2019: le principali criticità

Proseguendo sulla scia dei risultati positivi, la ricerca statistica della Federazione Italiana Pubblici Esercizi sottolinea che la ristorazione attualmente è determinante per il sostegno dato alla filiera agroalimentare. Infatti si acquistano alimenti per una somma totale che sfiora i 20 miliardi di euro, con un valore aggiunto che arriva addirittura a superare i 46 miliardi di euro, ovvero il 34% del valore complessivo di tutto il settore. Da ricordare anche il contributo che bar e ristoranti forniscono all’occupazione: in questo periodo il comparto conta almeno 1,2 milioni di lavoratori, con una crescita del 20% solo negli ultimi due anni.

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Ma c’è anche in questo caso un rovescio della medaglia. Analizzando i difetti della ristorazione italiana, su tutti è stata segnalata una radicata attività di concorrenza sleale nei centri storici delle nostre città. Come ha spiegato Lino Stoppani, il problema consiste nei prezzi elevati dei costi d’affitto dei locali e delle imposte come la Tari. A tutto ciò, ovviamente, bisogna aggiungere le spese legate alla gestione del personale. Questa situazione favorisce le iniziative poco trasparenti, basate su imprese con spazi e servizi ridotti ai minimi termini, nonché personale scarso. Se a tutto questo si aggiunge una scarsa tutela delle varie amministrazioni comunali, allora si ha un torbido quadro della prevalenza di coloro che sanno fare i cosiddetti «furbi» rispetto a chi, invece, gradirebbe muoversi secondo legge con tutti gli oneri del caso.

Il problema dei ristoranti nei centri storici.

E non è un caso se negli ultimi anni c’è stato un boom di take-away e negozi di kebab e paninoteche che non puntano tutto sulla qualità, a discapito di ristoranti e bar. Infine si è ribadito che anche in questo settore è necessario difendere l’italianità dalle imitazioni. Queste, infatti, non sono più legate soltanto ai falsi marchi dei prodotti alimentari, ma anche alla riproduzione illecita all’estero di storici brand di pasticcerie e ristoranti italiani.

Per tutelare i nostri migliori esponenti della ristorazione e della pasticceria è partito il progetto del marchio «ospitalità italiana». Finora è stata riconosciuta l’autenticità di circa 2.200 brand sugli oltre 60mila che in tutto il mondo si dichiarano esclusivamente di origine italiana.

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